Battaglia... d'amore e d'odio

 

Era la mattina di lunedì 15 novembre 1909 quando il vice pretore di Campli Giacomo Lucci, accompagnato dal vice cancelliere, si recò a Battaglia di Campli nella casa del 65enne Pasquale Di Candeloro, contadino. Trovò disteso a letto, in gravi condizioni, il figlio di Pasquale, Giuseppe, 34enne, assistito dalla madre, Clementina Pacinelli, e dalle sorelle, Teresa e Rosina. Il giovane era agli estremi, respirava affannosamente e non era in grado di rispondere alle domande. Fu Pasquale che rispose ad alcune domande del vice pretore, al quale riferì, tra l’altro, che chi aveva ferito suo figlio, Giuseppe Genovesi, fu Antonio e di Emidia Papinelli, gli aveva detto:

     “Tuo figlio, se non la finisce di andare sparlando di me, morrà per mano mia.”

     Il ferimento era stato, quindi, a lungo premeditato e non era stato l’esito di una scontro nato all’improvviso. La madre del ferito, Clementina, riferì che aveva visto tornare in casa suo figlio, ferito e non in grado di parlare, che solo facendo dei segni riuscì faticosamente a spiegare che era stato assalito da quattro persone, di cui uno era un sarto, che lo aveva colpito.

     Il vice pretore accertò che nella famiglia del ferito tutti sapevano della rivalità tra Giuseppe e il Genovesi, che faceva il sarto, e così avevano capito subito che era stato lui a colpire. Al fatto era stato presente il calzolaio Luigi Michilli, che aveva portato in paese la notizia del ferimento.

      Ad avvertire i carabinieri era stato poi Atnonio Bonetti, di Luigi, di anni 20, calzolaio di Battaglia. I carabinieri, il vicebrigadiere Giuseppe Pierleoni, comandante la stazione di Campli, e Giuseppe Marcante, verso le 13 si erano portati sul luogo del ferimento.

      Le indagini, prima dei carabinieri e poi del vice pretore consentirono di appurare che da parecchio tempo tra Giuseppe Genovesi e Giuseppe Di Candeloro non correva buon sangue, a causa di una rivalità d’amore per la giovane Annina Ciprietti, di Berardo, di anni 20, di Battaglia.

      Il giorno del ferimento, domenica 14 novembre, verso le 14,30, i due rivali si erano incontrati sulla via di Battaglia e avevano cominciato ad offendersi reciprocamente. Di Candeloro aveva detto a Genovesi che non aveva paura di lui e che lo avrebbe ucciso con un dito. Giunti al fosso Ranna, Di Candeloro si era fermato a far bere il mulo che cavalcava, poi, raggiunto il Genovesi che lo precedeva di qualche passo, gli aveva dato un colpo di “cavezza alle spalle”. Erano stati presenti, perché viaggiavano insieme, Carlo Sciamanna, di anni 26, e suo fratello Sabatino, di anni 20, i quali nei pressi della loro masseria, che si trovava lungo la strada per Battaglia, avevano raggiunto Luigi Michilli di Raffaele, di anni 36, e la moglie di questi, Felicita Cascioli, di anni 36, che procedevano insieme con il loro figlio, Giuseppe di anni 12.

      La loro testimonianza consentì di ricostruire quello che era accaduto. Di Candeloro aveva spronato il mulo per investire Genovesi, tanto che lo aveva urtato sulla testa con il muso della bestia. Genovesi aveva reagito dando un pugno alle costole di Di Candeloro, che era smontato dal mulo e si era messo a scagliare dei sassi all’impazzata contro Genovesi. Questi si era riparato dietro il muro che costeggiava la masseria di Sciamanna. Stando dietro il muro, impugnava una falce.

      Michilli aveva tentato di pacificare i due rivali, e, afferato al petto Di Candeloro, lo aveva esortato a cessare di scagliare i sassi. La lite era effettivamente finita e tutti si erano rimessi in cammino. A circa trecento metri da Battaglia, però, Di Candeloro aveva ripreso di nuovo a raccogliere dei sassi e a scagliarli contro il rivale, che lo precedeva di tre o quattro passi.  Anche Genovesi ne aveva raccolto uno e lo aveva scagliato contro Di Candeloro, che aveva colpito alla testa, facendolo stramazzare a terra, privo di sensi. Poi si era dato alla fuga.

      Michilli aveva soccorso il ferito e si era offerto offrì di accompagnarlo a casa, ma quello aveva rifiutato, gesticolando, perché non riusciva a parlare. Michilli lo aveva adagiato a terra, sulla scarpata che fiancheggiava la strada ed era corso ad informare dell’accaduto qualche famigliare del ferito. Arrivato alle prime case del paese di Battaglia, aveva chiesto alle prime persone incontrate se il ferito avesse famiglia e dove. Ma, volgendosi indietro, aveva visto arrivare Di Candeloro, che grondava sangue e procedeva barcollante, diretto verso la sua abitazione. Era arrivato ad una cinquantina di metri dalla sua destinazione, quando le forze gli erano venute meno e non era stato capace di proseguire. Era stato sorretto da due suoi paesani, accorsi nel frattempo, il 19enne Casimiro Ciprietti e il 55enne Giovanni Guglielmi, di anni 55, che lo avevano accompagnato a casa sua, dove i famigliari lo avevano messo a letto.

      Visitato dal dottor Luigi Lucci, il ferito era stato giudicato in grave ed imminente pericolo di vita, avendo riportato una commozione cerebrale. Verso le 20 aveva cessato di vivere.

      L’autopsia sul corpo di Giuseppe Di Candeloro, effettuata dal dottor Lucci e dal dottor Giuseppe Marziale la mattina di mercoledì 17 novembre 1909, accerterà che, a causa della frattura delle ossa craniche, una scheggia ossea aveva leso l’arteria meningea e tra la scatola cranica e la dura madre si era raccolta una gran quantità di sangue coagulato. La sostanza cerebrale si era  avvallata per uno spazio elissoidale col maggior diametro di otto centimetri. All’esame esterno il cadavere presentava sangue dal naso e sui baffi, piccoli e neri. Le Labbra tumefatte e il lato destro della faccia e della testa erano assai gonfi per enorme imbibizione di sangue.

      Il feritore si costituì alle ore 11 di martedì 16 novembre a Teramo, in Procura e si consegnò al sostituto procuratore Carlo Malavasi. Trasferito in carcere, fu interrogato dal giudice istruttore Raffaele Ranieri nel pomeriggio di mercoledì 17 novembre. Dichiarò che il suo rivale era prepotente e “accimentoso”, soprattutto quando era ubriaco, come tutti nel suo paese avrebbero potuto dire. Pretendeva di amoreggiare con Annina Ciprietti, che non voleva saperne di lui, e andava continuamente a molestarla in casa.

      Qualche anno prima, aggiunse Giuseppe Genovesi, la mano della Ciprietti era stata richiesta da tale Camillo Ferramini, di Fichieri, e solo per questo fatto Di Candeloro una sera lo aveva percosso gravemente e aveva molestato il padre della giovane, sì che era stato querelato sia dall’uno che dall’altro.  Circa quattro mesi prima si era messo lui ad amoreggiare con la Ciprietti, senza farne parola ai genitori, e Di Candeloro, essendosene accorto, più volte gli aveva intimato di non tornare più a Battaglia, altrimenti gli avrebbe fatto come a quel giovane di Fichieri.        

      “Alle 13 di ieri” dichiarò ancora Genovesi “presi la carrozza postale per andare alla traversa di Campli e proseguire poi a piedi per Battaglia, per prendere parte ad una ricreazione che si faceva perché il figlio di tale Raffaele Ramone aveva organizzato per suo figlio che il giorno dopo doveva partire militare. Arrivato alla traversa entrai un un’osteria, anzi mi fermai presso la porta della stessa e feci uscire mezzo litro di vino per berlo insieme con il carrozziere Silviuccio di Campli e un certo Umberto, fornaciaio di Torricella Sicura.”

      Mentre stavano bevendo, proseguì Genovesi “Di Candeloro, che stava dentro l’osteria, gli aveva offerto da bare, ma lui aveva rifiutato. Poi gli aveva chiesto dove era diretto. Aveva risposto che stava andando a Battaglia, al che Di Candeloro gli aveva detto:

      “A Battaglia non ci venire, se no ti faccio tornare a Campli.”

      Senza tener conto della minaccia, aveva ripreso il suo cammino, ma Di Candeloro, evidentemente ubriaco, era salito sul suo mulo e lo aveva raggiunto qualche centinaio di metri dopo l’osteria.

      “Si mise a percuotermi con la cavezza e cercò di farmi calpestare dal mulo” continuò Genovesi. “Lo pregai di lasciarmi stare, ma lui mi colpì due volte col dito alla gola e dopo qualche centinaio di metri, prima di passare il fiume, scese dal mulo e mi tirò una sassata, che io riuscii a schivare. Mi diedi alla fuga, ma mi raggiunse al di là del fiume, presso la masseria di Ramone e mi urtò col mulo facendomi cadere. Poi mi tempestò di sassate, che riuscii a schivare riparandomi dietro il muro della masseria Sciamanna. Mi allontanai di nuovo, ma dopo una sessantina di metri, sempre a dorso del suo mulo mi raggiunse, mi urtò un’altra volta con il mulo e mi fece cadere. Rialzatomi, gli diedi un pugno e lui, sceso dal mulo, prese un grosso sasso e me lo tirò. Mi riparai dietro una quercia e lo schivai. Siccome aveva raccolto un altro sasso e stava per scagliarmelo, ne raccolsi uno anche io, della grossezza di un arancio e glielo tirai. Cadde, senza che io riuscissi a capire dove era rimasto colpito. Poi mi diedi alla fuga."

      All’episodio si erano trovate presenti delle donne e poi, poco dopo, Luigi Michilli, la moglie e il figlio. Ramone Biagio, paolo Cioti, sacerdote, Emidio Pacinelli, tutti di Battaglia. Come testimoni furono sentiti anche due coloni di Biagio Ramone, anch’essi presenti, erano Carlo Sciamanna e Sabatino Citati.

      “La mia intenzione non era quella di uccidere, ma solo quella di difendermi” si difese Genovesi.

      I carabinieri accertarono che Giuseppe Di Candeloro era ritenuto da tutti prepotente e dedito al vino e quando era ubriaco, ciò che gli accadeva spesso, diveniva addirittura insopportabile. Anche Genovesi era dedito al vino, ma anche da ubriaco non aveva la mania di molestare le persone.  Era ritenuto di carattere buono ed era rispettato da tutti, meno che dai familiari, con i quali, non si sapeva perché, non andava molto d’accordo.

      Venne accertato che quindici giorni prima del fatto i due rivali avevano avuto una lite a Battaglia, nell’esercizio di Rosina Di Candeloro, sorella dell’ucciso. Di Candeloro stava parlando con Raffaele Ramoni relativamente ad un trasporto di generi alla vicina Teramo e aveva pronunciato la parola “carretto”, che era il soprannome di Giuseppe Genovesi. Questi aveva creduto che parlassero di lui e aveva chiesto spiegazioni a Di Candeloro.

      Tra i precedenti di Genovesi risultavano una condanna a tre mesi di reclusione nell’agosto del 1901 per lesione in persona del padre, pena condonata della metà, e un’ammenda di trenta lire per porto abusivo di fucile nell’agosto del 1908.

      Interrogato nuovamente il 23 febbraio 1910 nel carcere di Teramo, Genovesi negò di aver minacciato il rivale in presenza del padre di lui. Disse che il suo soprannome era “carretto” e confermò anche che aveva creduto che parlassero di lui quel giorno nell’esercizio di Rosina Di Candeloro.

      Giovedì 17 marzo 1910 Giuseppe Genovesi fu interrogato dal P.M. e invitato a ricostruire di nuovo le fasi del ferimento mortale di Di Candeloro. Questi gli aveva chiesto dove andava e lui aveva risposto che andava a Battaglia. Di Candeloro aveva detto:

      “Vengo anche io a Battaglia, andremo insieme”.

      Genovesi gli aveva offerto del vino e lui aveva rifiutato. Poi gli aveva detto:

      “Ma dai, Peppì, non fare sempre il matto.”

      Lui aveva risposto:

      “Non voglio bere, non sai che con te ce l’ho?”

      “E’ meglio che a Battaglia non vieni, nessuno ci ha mai fatto il fesso, ce lo vuoi fare tu?” aveva detto Di Candeloro.

      Lui aveva risposto:

      “Lasciami andare per la mia strada”.

      ”Guarda che è un pezzo che mi vai accimentando” gli aveva risposto Di Candeloro: “Ma io non ho paura di nessuno. Me ne frego di te, dei carabinieri, del Pretore.”

      Giuseppe Genovesi venne inviato a giudizio per Richiesta rinvio per omicidio preterintenzionale, non a scopo di difesa.  Il 23 marzo la Camera di Consiglio rigettò la richiesta di libertà provvisoria. Il processo ebbe inizio alle ore 9 di venerdì 22 luglio 1910 ore 9. Il difensori dell’imputato erano l’avv. Francesco Moruzzi di Teramo e l’avv. Arturo Muzi di Campli. Presiedeva la Corte Giuseppe Bruni. Dopo la costituzione di parte civile fu letto l’atto di accusa. Dopo di che alcuni testimoni dichiararono che la vittima, Di Candeloro, aveva minacciato il vice-pretore di Campli che lo aveva condannato per il ferimento del giovane di Fichieri, aveva minacciato anche il cav. Petrincelli, pubblico ministero nel processo a suo carico, e infine aveva minacciato nella cantina di Luigi Di Carlo a Campli tale Ferramini, mentre si trovava in compagnia dell’avv. Flaviano De Marco, il primo con un pugnale e il secondo con un revolver.

      Durante il processo venne anche ricostruito un episodio al quale la dfiesa dell’imputato diede molto risalto. Qualche giorno dopo l’uccisione di Di Candeloro, nel salone da barbiere di Giuseppe Tommaso, a Campli, tale Giovanni Giunchi aveva sentito un contadino di Battaglia parlare dell’accaduto. Allora aveva chiesto:

      “E’ vero che il morto era una carogna?”

      Il contadino aveva risposto:

      “Sì, perché non ci ha lasciato nessuno ed ha accimentato perfino il pretore e i carabinieri e io sempre gli dicevo che a chi lo ammazzava avrei regalato cento lire.”

      Giovanni Giunchi dichiarò di aver poi saputo che quel contadino era addirittura il padre del morto.  Un’altra teste, Doralice Campamella, dichiarò di sapere che proprio il padre del morto alcuni giorni dopo il fatto si era recato a casa della vittima, Giuseppe Genovesi, alla quale aveva espresso il suo rammarico per la carcerazione del figlio, di cui si era augurato la prossima liberazione.

      Teresa Di Candeloro, sorella della vittima, di 27 anni, dichiarò di aver suo fratello Giuseppe subito dopo il fatto e lo aveva visto sconvolto. Aveva un mulo, ma camminava a piedi. Piangeva disperatamente e non aveva risposto alle sue domande. Anche l’altra sorella, Rosina, dichiarò di aver incontrato Giuseppe, che, nel vederla, era scoppiato in pianto e si era gettato a terra.

      Il processo si concluse sabato 23 luglio 1910 con l’assoluzione dell’imputato, per aver agito in stato di legittima difesa. Giuseppe Genovesi venne subito scarcerato.